Fino a che punto il lavoro che svolgiamo definisce la nostra identità? Rispondere a questa domanda aiuta sicuramente a riflettere sul proprio modo di vivere il lavoro, considerando anche i momenti in cui avviene una “sovrapposizione” tra vita privata e professionale. L’articolo della giornalista Kate Morgan, pubblicato su BBC, offre molti spunti di riflessione in merito, oltre a dare un’idea di come affrontare il dualismo tra vita privata e lavorativa, che in molte persone arriva ad essere un’entità unica.
Indice dell'articolo
L’importanza identitaria del lavoro ha radici antiche
Il fatto che la professione sia un aspetto così rilevante da influire sull’identità non è un fenomeno esclusivamente moderno: già in epoche antiche, infatti, il lavoro svolto giocava un ruolo molto importante a livello sociale ed identitario.
È emblematico, da questo punto di vista, il fatto che molti dei cognomi più diffusi nelle diverse zone del mondo altro non sono che denominazioni di mestieri: Müller, diffusissimo in Germania e in Svizzera, significa “mugnaio”, stesso significato del cognome Melnik, che è uno dei più comuni in Ucraina. Insomma, l’associazione identitaria con il proprio mestiere ha radici ben salde nella storia dell’uomo.
Anche in epoca medievale, ovvero quando nelle diverse zone del mondo nasceva e si consolidava l’abitudine di utilizzare dei cognomi, il lavoro era considerato un tratto identificativo molto importante. Tuttavia negli ultimi tempi l’importanza che il lavoro assume in tale ottica sta arrivando a livelli davvero alti, al punto da chiedersi se ciò sia positivo e se possa comportare delle problematiche a livello sociale e psicologico.
Perché oggi il lavoro è così rilevante nel definire la propria identità
Anne Wilson, docente di psicologia presso la Wilfrid Laurier University, in Canada, ritiene che l’importanza identitaria della professione svolta sia “esplosa” nell’ultimo secolo.
Questo fenomeno sarebbe dovuto ai molteplici progressi di cui la società è stata protagonista negli ultimi decenni, nonché le maggiori possibilità di accesso all’istruzione, che hanno ampliato notevolmente le opportunità di scelta in tal senso.
Oggi esternare la professione che si svolge è senz’altro un elemento identitario importante. Ma che risvolti può avere tutto ciò a livello psicologico? Secondo la Professoressa Wilson, questa tendenza può essere una vera e propria arma a doppio taglio anche per chi può vantare un lavoro importante.
Se da un lato dichiarare di essere un medico chirurgo può essere un fattore di grande orgoglio, in quanto è un traguardo raggiunto a seguito di lunghi studi e una professione di grande responsabilità e ben remunerata, dall’altro potrebbe verificarsi quello che la professoressa Wilson definisce “enmeshment“.
Enmeshment: “invischiamento” tra vita privata e professionale
Questa parola inglese significa letteralmente “invischiamento” e viene usata per far riferimento a quella condizione in cui il lavoro tende ad assumere un’importanza eccessiva nella vita della persona, assorbendone oltremodo tempo ed energie.
Secondo Wilson, un chiaro segnale di enmeshment è il fatto di parlare del proprio lavoro non appena si conosce una nuova persona, in maniera eccessiva e forzata, e questo potrebbe avere delle ripercussioni molto negative a livello relazionale in quanto renderebbe più difficile instaurare una buona dose di confidenza con chi svolge tutt’altro tipo di professione.
Ma i rischi per chi conferisce eccessiva importanza al lavoro non finiscono qui! Anzi, secondo la Professoressa ve ne sarebbero di ben più seri. Chi vive una situazione di enmeshment, infatti, tende a correlare la sua autostima ai propri successi professionali, e in caso di fallimenti o di gravi delusioni questo potrebbe avere degli effetti psicologici negativi, al punto da causare delle vere e proprie crisi d’identità.
In una situazione di enmeshment le difficoltà lavorative possono avere effetti deleteri
Del medesimo parere è la psicologa Janna Koretz, fondatrice di Azimuth Psychological, realtà specializzata nel benessere psicologico di persone che svolgono attività lavorative che comportano una notevole pressione.
La Dottoressa Koretz sottolinea che nella vita di un lavoratore è pressoché inevitabile che avvenga un qualcosa di negativo, come può essere un licenziamento, una crisi aziendale o situazioni pesantemente conflittuali con superiori e colleghi. E in situazioni come queste chi vive in una condizione di enmeshment può subire alterazioni psicologiche molto spiacevoli come ansia e stati depressivi, che in alcuni casi possono portare l’individuo a fare uso di sostanze.
Koretz evidenzia anche un aspetto molto suggestivo, ovvero il fatto che la grande maggioranza delle persone che cadono nella trappola dell’enmeshment non si accorge neppure di essere in questa condizione, e a questo riguardo sottolinea il fatto che i lavoratori in cura presso la sua clinica affermano quasi sempre che quello che stanno svolgendo rappresenta il lavoro dei loro sogni.
La necessità di una vita più equilibrata
L’auspicio, dunque, è che le persone divengano ben consapevoli di questo e che imparino a costruire una vita più equilibrata, in cui il lavoro è solo una componente, non più importante della famiglia, degli amici e del proprio benessere.
Molto interessante, a questo riguardo, è quanto sottolineato da Clay Routledge, docente di psicologia presso la North Dakota State University. Routledge evidenzia che nel momento in cui si vive una situazione di pericolo per la propria incolumità le persone realizzano in modo più convinto il fatto che la vita debba essere vissuta in modo completo e che non sia affatto corretto improntarla pienamente al successo professionale.
È proprio questo ciò che si è verificato nell’ultimo anno con l’emergenza sanitaria che ha interessato il pianeta: lo stop forzato a tante attività lavorative, il confinamento e soprattutto la paura per la propria salute ha portato tanti lavoratori interessati da enmeshment a riflettere sul modo di vivere la loro vita professionale. Le smodate pressioni professionali, rileva Routledge, non sono esclusivamente frutto di un processo interiore, ma sono spesso dovute anche a fattori esterni.
Già nell’infanzia, d’altronde, una domanda estremamente ricorrente è “cosa vuoi fare da grande?”, analogo discorso vale per le aspettative dei genitori, degli amici e dei partner, che in alcuni casi purtroppo possono divenire un peso davvero difficile da sormontare laddove si dovesse incappare in delusioni e problematiche professionali di qualsiasi genere.
Correggere la propria vita con gradualità e nei giusti tempi
Secondo il Professor Routledge, dunque, correggere quest’aspetto è molto importante per chi è interessato da enmeshment, ma come si può fare dal punto di vista pratico? Lo psicologo sottolinea il fatto che per migliorare la propria vita è sempre una buona regola quella di prediligere cambiamenti graduali, piuttosto che sconvolgimenti repentini.
Per fronteggiare una condizione di enmeshment, quindi, potrebbe essere senz’altro una buona idea quella di ritagliarsi più tempo da trascorrere con familiari ed amici, oppure di scegliere un hobby da coltivare. A questo riguardo, Routledge espone una metafora che potrebbe essere davvero perfetta per il lavoratore interessato da enmeshment che si occupa di investimenti finanziari: così come nella finanza è sempre una buona regola quella di diversificare i propri investimenti, lo stesso vale per la vita privata.
Non c’è soltanto il lavoro, ma anche tanti altri momenti che meritano di essere coltivati e che non devono mai essere sopraffatti dalla vita professionale.